IL PARLAMENTO
Giosué Carducci

TESTO

I
Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
Da Porta Nova a briglie abbandonate.
«Popolo di Milano,» ei passa e chiede,
«Fatemi scorta al console Gherardo
Il consolo era in mezzo de la piazza,
E il messagger piegato in su l'arcione
Parlò brevi parole e spronò via.
Allor fe' cenno il console Gherardo,
E squillaron le trombe a parlamento.

II
Squillarono le trombe a parlamento:
Ché non anche risurto era il palagio
Su' gran pilastri, né l'arengo v'era,
Né torre v'era, né a la torre in cima
La campana. Fra i ruderi che neri
Verdeggiavan di spine, fra le basse
Case di legno, ne la breve piazza
I milanesi tenner parlamento
Al sol di maggio. Da finestre e porte
Le donne riguardavano e i fanciulli.

III
«Signori milanesi,» il consol dice,
«La primavera in fior mena tedeschi
Pur come d'uso. Fanno pasqua i lurchi
Ne le lor tane, e poi calano a valle.
Per l'Engadina due scomunicati
Arcivescovi trassero lo sforzo.
Trasse la bionda imperatrice al sire
Il cuor fido e un esercito novello.
Como è co' i forti, e abbandonò la lega.»
Il popol grida: «L'esterminio a Como!»

IV
«Signori milanesi,» il consol dice,
«L'imperator, fatto lo stuolo in Como,
Move l'oste a raggiungere il marchese
Di Monferrato ed i pavesi. Quale
Volete, milanesi? od aspettare
Da l'argin novo riguardando in arme,
O mandar messi a Cesare, o affrontare
A lancia e spada il Barbarossa in campo?»
«A lancia e spada,» tona il parlamento,
«A lancia e spada, il Barbarossa, in campo!»

V
Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
Di ben tutta la spalla egli soverchia
Gli accolti in piedi al console d'intorno.
Ne la gran possa de la sua persona.
Torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano
La barbuta: la bruna capelliera
Il lato collo e l'ampie spalle inonda.
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
Ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
È la sua voce come tuon di maggio.

VI
«Milanesi, fratelli, popol mio!
Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
«Calen di marzo? I consoli sparuti
Cavalcarono a Lodi, e con le spade
Nude in mano gli giurâr l'obedïenza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno,
Ed a i piedi, baciando, gli ponemmo
I nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerí le chiavi
Di Milano affamata. E non fu nulla

VII
«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
«Il dí sesto di marzo? Ai piedi ei volle
Tutti i fanti ed il popolo e le insegne.
Gli abitanti venían de le tre porte,
Il carroccio venía parato a guerra;
Gran tratta poi di popolo, e le croci
Teneano in mano. Innanzi a lui le trombe
Del carroccio mandâr gli ultimi squilli,
Innanzi a lui l'antenna del carroccio
Inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi

VIII
«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
«Vestiti i sacchi de la penitenza,
Co' piedi scalzi, con le corde al collo,
Sparsi i capi di cenere, nel fango
C'inginocchiammo, e tendevam le braccia,
E chiamavam misericordia. Tutti
Lacrimavan, signori e cavalieri,
A lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso
Lo scudo imperïal, ci riguardava.
Muto, col suo dïamantino sguardo.»

IX
«Vi sovvien,» dice Alberto di Giussano,
«Che tornando a l'obbrobrio la dimane
Scorgemmo da la via l'imperatrice
Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
Noi gittammo le croci a lei gridando
- O bionda, o bella imperatrice, o fida,
O pia, mercé, mercé di nostre donne! -
Ella trassesi indietro. Egli c'impose
Porte e muro atterrar de le due cinte
Tanto ch'ei con schierata oste passasse.»

X
«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
«Nove giorni aspettammo; e si partiro
L'arcivescovo i conti e i valvassori.
Venne al decimo il bando - Uscite, o tristi,
Con le donne co i figli e con le robe:
Otto giorni vi dà l'imperatore -.
E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio,
Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,
Via ci cacciaron come can tignosi

XI
«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
«La domenica triste de gli ulivi?
Ahi passïon di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una
Crosciar vedemmo le trecento torri
De la cerchia; ed al fin per la ruina
Polverosa ci apparvero le case
Spezzate, smozzicate, sgretolate:
Parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti

XII
Cosí dicendo Alberto di Giussano
Con tutt'e due le man copriasi gli occhi,
E singhiozzava: in mezzo al parlamento
Singhiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento
Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e da i veroni,
Pallide, scarmigliate, con le braccia
Tese e gli occhi sbarrati al parlamento,
Urlavano - Uccidete il Barbarossa! -.

XIII
«Or ecco,» dice Alberto di Giussano,
«Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,
O milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m'asciugo gli occhi, e a te guardando,
O bel sole di Dio, fo sacramento:
Diman da sera i nostri morti avranno
Una dolce novella in purgatorio:
E la rechi pur io!» Ma il popol dice:
«Fia meglio i messi imperïali.» Il sole
Ridea calando dietro il Resegone.

PARAFRASI

Federico: Federico Barbarossa (Federico I). Nell’ottobre 1174, disceso per la quinta volta in Italia, l’imperatore riparò dapprima a Pavia, poi, nella primavera del 1176, a Como, città che gli era rimasta fedele, per attendere i rinforzi dalla Germania. Successivamente si sarebbe unito alle milizie alleate di Pavia e del marchese Guglielmo di Monferrato; un messaggero: un inviato della Lega; Porta Nova: una delle sei porte che aveva allora Milano, quella verso Monza e Lecco. La scena è a Milano, alla vigilia della battaglia di Legnano (29 maggio 1176);  a briglie abbandonate: al gran galoppo;  passa e chiede: chiede senza fermarsi; fatemi scorta: guidatemi; console Gherardo: Gherardo Cagapisto, giureconsulto e oratore, più volte console di Milano tra il 1150 e il 1179; Il consolo: la forma latineggiante serve ad evitare i due "e" consecutivi; piegato in su l'arcione: resta piegato sulla sella senza scendere da cavallo; spronò via: ripartì velocemente; fe’ cenno: un cenno del Console corrisponde ad un imperativo gesto di comando; a parlamento: il suono delle trombe chiama il popolo a riunirsi in piazza.
ché non anche...la campana: il parlamento viene convocato all’aperto perché, dopo la demolizione di Milano ordinata dal Barbarossa quattordici anni prima (1162), non erano stati ancora (non anche) ricostruiti (risurto) il palazzo del Comune (palagio), nè la sala delle pubbliche adunanze (arengo), nè la torre con la campana che serviva per chiamare i cittadini a raccolta. Il Parlamento viene tenuto quindi nella piccola (breve) piazza della città in rovina, tra il nero dei ruderi e il verdeggiare dei rovi (i ruderi che neri verdeggiavan di spine), tra povere case di legno. Da finestre e porte: donne e bambini, fermi sulle porte e affacciati alle finestre partecipano all'adunanza. Ciò trasmette l'idea della portata popolare della riunione.
Il console riferisce ai suoi concittadini, i milanesi, quanto ha saputo dal messaggero, cioè che i rinforzi dell’imperatore sono arrivati da oltralpe: "La primavera in fior: la primavera matura conduce tra noi (mena), torme di tedeschi, come accade secondo il costume (pur come d’uso). Gli ingordi/i rapaci (lurchi), come belve che nella buona stagione escono dalle loro tane per scendere a valle e far bottino, due scomunicati Arcivescovi: due arcivescovi, Filippo di Colonia e Wichmann di Magonza (che appoggiarono l'imperatore e l'antipapa Callisto III), scomunicati (da papa Alessandro III), guidarono gli eserciti (trasser lo sforzo, espressione arcaica, ove "sforzo" significa forza raccolta d’armi e d’armati) per l’Engadina (cioè per la valle dell’Inn) fino al lago di Como. Trasse la bionda imperatrice: Beatrice di Borgogna (seconda moglie di Federico), venne a sua volta in Italia, recando all’imperatore se stessa (cuor fido) e un esercito composto di nuove leve (novello) (l'episodio è un'invenzione di Carducci, perchè l'imperatrice in quel momento era già in Italia). Como è co’ i forti: Como ha abbandonato la Lega passando dalla parte dell’esercito imperiale. Il popolo inneggia quindi alla distruzione (esterminio, arcaismo) di Como.
fatto lo stuolo: riunito l'esercito in Como l'Imperatore muove l'esercito schierato in battaglia (l'oste) a raggiungere il marchese di Monferrato ed i pavesi (Pavia e il Monferrato, oltre a Como, si erano schierati con Barbarossa). Quale volete: cosa scegliete?. (tre sono le proposte che il console espone: stare sulla difensiva, venire a patti, affrontare il nemico in campo aperto) O aspettare proteggendo le nuove linee difensive della città (l’argin novo: quello che aveva sostituito la cinta difensiva distrutta). O inviare messaggeri ( mandar messi) per trattare con l'imperatore (Cesare) (ciò avrebbe significato inchinarsi all’autorità e ai diritti dell’imperatore  e quindi accettare il solo accordo possibile con lui, la resa). O affrontare con le armi (a lancia e spada) il Barbarossa sul campo (il Barbarossa: ora Federico è designato col nomignolo). A lancia e spada tuona il Parlamento. (l'enfasi della frase ripetuta riproduce la risolutezza della risposta).
Ora si fa avanti Alberto di Giussano: il capitano della Compagnia della Morte, drappello di guerrieri che si oppose fortemente al Barbarossa. Egli supera notevolmente in altezza (Di ben tutta la spalla egli soverchia. Le cronache parlano dell’alta statura e della forte corporatura di Alberto) i cittadini riuniti in piedi intorno al console. Nella grande forza (possa) della sua persona egli si leva come una torre (torreggia) in mezzo al Parlamento: tiene in mano l'elmo (la barbuta: è l'elmo con criniera e prolungato nella parte anteriore fino a coprire tutto il volto): la bruna capigliatura (capelliera) copre (inonda) il largo (lato: latinismo) collo e le ampie spalle. Il viso chiaro e onesto (chiara onesta: questi due aggettivi vogliono conferire qualità al poderoso guerriero lombardo come la franchezza e la nobiltà dell’espressione) è rischiarato dal sole che brilla sulle chiome e negli occhi. È la sua voce ....maggio: la sua voce è come un tuono di maggio che preannuncia tempesta ma anche promette un rinverdire della terra.
Milanesi, fratelli, popol mio: Alberto si indirizza ai Milanesi con immediatezza e con un trasporto d’amor fraterno che si contrappone nettamente al formale e composto "Signori milanesi" del console. Vi sovvien: vi torna in mente. (espressione ripetuta altre cinque volte al principio di ognuna delle strofe successive, ognuna delle quali rievoca un episodio di umiliazione subita dai Milanesi.) calen di marzo: il primo marzo del 1162, quando Milano, dopo un lungo assedio, si arrese e i consoli della città giurarono fedeltà all'imperatore, nel suo palazzo a Lodi. I consoli sparuti (gli otto consoli emaciati per la fame patita e la pena del momento), cavalcarono fino a Lodi e con le spade sguainate giurarono obbedienza.  Seguirono, il quarto giorno, trecento cavalieri che ai piedi dell’imperatore deposero gli stendardi, e mastro Guitelmo (ingegnoso architetto nel quale i cittadini riponevano le loro speranze) gli consegnò le chiavi dell'affamata Milano. E non fu nulla: e questo non gli bastò.
il dì sesto di marzo: il 6 marzo, quando l’imperatore volle ai suoi piedi tutti i militi e tutto il popolo e tutte le insegne (sfilarono davanti a Federico, giurandogli fedeltà). venían... venía: voce verbale ripetuta, lenta, che ha la funzione di creare il suono e l'immagine di esodo doloroso, di processione interminabile. Gli abitanti arrivavano dalle tre porte (porta Vercellina, porta Comasca e porta Nuova), il carroccio (un carro sul quale era posto un altare dove, durante la battaglia, un sacerdote celebrava la guerra. il celebre carro da guerra era simbolo dell'indipendenza dei comuni) arrivava parato a guerra; gran tratta poi di popolo: una gran fila, una moltitudine grande, di popolazione che teneva in mano le croci. Davanti a lui le trombe del carroccio suonavano gli ultimi squilli (dopo tanti squilli di esaltazione e di gloria cittadina, gli squilli della resa)  Ei toccò i lembi: per indicare che accettava la resa egli toccò i lembi del gonfalone in segno di possesso.
Indossati (vestiti) i sacchi della penitenza, con i piedi scalzi, le corde al collo, il capo cosparso di cenere, nel fango, c'inginocchiammo e tendevamo le braccia invocando misericordia. Tutti attorno a lui piangevano, signori e cavalieri del suo séguito, impietositi da tanta miseria. Impassibile e inflessibile rimaneva il solo imperatore, col suo sgardo  diamantino: freddo e duro come il diamante. 
Rinnovandosi l’umiliazione (tornando a l’obbrobrio) il giorno dopo(la dimane). Scorta l'imperatrice che passanva per strada gettammo attraverso i cancelli le croci, implorandola ad alta voce (a lei gridando): O bionda, o bella, o fedele, o pia, mercé: pietà; di nostre donne: "se non di noi, abbi pietà di loro almeno, che sono, come te, donne e madri".
Ella trassesi indietro: L’imperatrice si ritrae. Egli c’impose: ed egli, allora, come fatto forte dal diniego di lei, impose di abbattere la doppia cintura fortificata dei bastioni di Milano (le due cinte) in modo che egli potesse passare con schierata oste: col suo esercito schierato.
Aspettammo nove giorni, e intanto partirono (si partiro) (da Milano) l’arcivescovo (Oberto da Pirovano) i conti e i vassalli minori (i valvassori). Arrivò infine, al decimo giorno, l'ordine (bando) imperiale (dava ai Milanesi otto giorni di tempo per abbandonare la città). "Uscite, sciagurati (o tristi) con le donne, i figli e le vostre cose: otto giorni vi concede l'imperatore.  tristi: maledetti, sciagurati."
E noi corremmo urlando alla basilica di Sant’Ambrogio (a Sant’Ambrogio, patrono della città). Ci abbracciammo (secondo l’uso antico di abbracciarsi agli altari implorando) agli altari ed ai sepolcri, via dalla chiesa con le donne e i figli ci cacciarono (ci cacciaron: gli ecclesiastici parteggiavano per l'imperatore) come can tignosi (espressione popolaresca).
la domenica triste de gli ulivi: il primo di aprile del 1162, quando fu ultimata la demolizione delle mura di Milano, e così si consumò quella settimana di passione che unì il dolore della città al dolore di Cristo (passïon di Cristo e di Milano).
Daiquattro Corpi santi (forse i sobborghi in cui erano stati raccolti in parte i profughi milanesi) vedemmo cader rovinosamente (crosciar) ad una, ad una le trecento torri della cerchia. ed al termine della distruzione (al fin) attraverso la nube di polvere sollevata dai crolli (per la ruina polverosa) ci apparvero le case spezzate, smozzicate (rovinate qua e là), sgretolate: sembravano file di scheletri al cimitero. Di sotto i corpi dei nostri antenati ardevano dal desiderio di vendetta (l'ossa ardean de' nostri morti; sopra, l’ossa della città distrutta: sotto, l’ossa dei morti).
Così parlando, Alberto da Giussano, si copriva gli occhi con tutte e due le mani (con tutt’e due le man copriasi gli occhi: quasi per non vedere la desolante realtà, ed anche per non mostrare il suo pianto). Ma quel pianto poi rompe ogni ritegno: singhiozzava in mezzo al parlamento, singhiozzava e piangeva come un bambino (singhiozzava... come un fanciullo).
Ed allora: dopo avere ascoltato in silenzio le drammatiche evocazioni di Alberto, il parlamento, cioè tutto il popolo milanese, ebbe un'esplosione di sdegno e d’ira, quasi un fremito di belve. Da le porte... da i veroni (balconi): riprende il v. 19 - "Da finestre e porte" - le donne pallide e spettinate, con le braccia tese e gli occhi sbarrati urlavano: "Uccidete il Barbarossa".
(è il momento in cui Alberto si placa, confortato dall’impetuoso e generale consenso), dice Alberto di Giussano, ecco io non piango più. E' arrivato il nostro giorno (il dì nostro: il giorno della riscossa). O milanesi e bisogna vincere. Ecco io mi asciugo gli occhi e guardando il sole (o bel sole di dio: ancora il sole, qui segno di Dio) faccio giuramento (sacramento, latinismo): domani, verso sera (diman da sera) i nostri morti avranno una dolce notizia (novella) in purgatorio.
E sia pure io stesso a portarla (e la rechi pur io). Ma il popolo, di rimando, dice: "Sarà meglio che gli imperiali facciano da messaggeri in Purgatorio, sottinteso morendo in battaglia (Fia meglio i messi imperiali). Il sole splendeva (Ridea) tramontando dietro il Resegone (si tratta di un errore geografico, perchè il Resegone si trova a nord-est di Milano. Carducci fu informato dell'errore ma non si preoccupò di correggerlo).


Analisi e commento:

Scritto nella ricorrenza del settimo centenario della battaglia di Legnano, questo componimento, originariamente intitolato "La battaglia di Legnano" fu iniziato da Carducci nell'aprile del 1876 e dopo essere stato più volte riveduto e corretto fu concluso nella sua prima parte intitolata "Il Parlamento" solo nel marzo 1879 e pubblicato con il titolo "Della canzone di Legnano/Parte prima/Il Parlamento" sulla "Rassegna settimanale".
In questo poemetto, Carducci si prefiggeva di cantare le lotte dei Comuni contro Federico Barbarossa e la vittoria di Legnano in tre parti: la prima, "Il parlamento", la seconda, "La battaglia" e la terza, "La fuga dell'imperatore". Carducci riuscì a comporre solo quella che tratta del Barbarossa che, dopo il fallito tentativo di prendere Alessandria, roccaforte della Lega Lombarda, si è rifugiato nel 1175 a Pavia e nel 1176 a Como per unirsi ai rinforzi provenienti dall'Engadina, mentre i Milanesi riuniti in parlamento nella città, già distrutta dall'imperatore e ricostruita alla bell'e meglio, spronati dalle commosse parole di Alberto da Giussano, deliberano di affrontare il nemico e quindi di opporsi con le armi a Federico Barbarossa.
Nel periodo precedente alla stesura della canzone, Carducci seguì con passione l'attività politica dei democratici. Nella Canzone di Legnano egli sostiene fortemente l'ideale di un medioevo comunale e combattivo che tiene vivo nelle riunioni del popolo (del parlamento) lo spirito dell'antica repubblica romana.

Metrica:

tredici lasse di dieci endecasillabi ciascuna. Il metro emula l'epica delle "Chansons de geste" di cui vi è traccia nel fatto di ricorrere a parallelismi e alle riprese testuali.